in arcadia ego
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asseggiavo nervosamente fumando con foga ansiosa l’ennesima sigaretta e controllando, con attenzione, la grossa pendola a lato della biblioteca sperando che le lancette si decidessero, una volta per tutte, ad avanzare. Era stata una giornata importante. Avevo finalmente scoperto il segreto del manoscritto ed ero eccitato poiché ogni suo tassello aveva ora trovato una giusta collocazione e in conclusione tutta la mia inutile vita iniziava ad avere uno scopo.
Avevo vissuto fino a quel momento come un attore che recitava le scene di un film non conoscendone la trama, ma ora le riprese erano finite ed ero stato il protagonista di un capolavoro. Di contro però mi resi subito conto del pericolo sinora inconsciamente sfiorato ed ora chiaro ed incombente.
Chiamai il mio più caro amico con la certezza che sarebbe subito accorso come aveva fatto tante altre volte in precedenza ed imballai il manoscritto in una grossa scatola camuffandola da pacco dono con tanto di nastro e fiocco colorato.
Mi sedetti alla scrivania e, come già avevo progettato di fare, utilizzai i miei appunti, una pergamena dell’epoca, recuperata durante le ricerche compiute nell’arco del decennio precedente e dell’inchiostro confezionato con le metodologie adottate nel XIII secolo.
Riscrissi con perizia alcune frasi apparentemente senza alcun significato specifico ma sicuramente molto d’effetto, infilai il tutto nella mia 24 ore ed iniziò l’attesa.
Stavo ancora passeggiando quando, all’improvviso, il suono del campanello mi fece trasalire; per un attimo rimasi irrigidito, senza pensieri, con il cuore che sembrò fermarsi. Mi avvicinai alla porta, lentamente guardai dallo spioncino e il sangue ritornò a scorrere vedendo il viso bonario e gioviale del compagno di tante avventure.
Lo feci entrare con cautela, controllando se qualcuno lo avesse seguito. Chiusi la porta e, girandomi, notai subito i suoi occhi azzurri indagatori che mi stavano scrutando con accuratezza inquisitoria. Poiché presupponevo che volesse rivolgermi almeno un centinaio di domande cui non avrei potuto dare alcuna risposta, lo prevenni non senza un certo imbarazzo.
“Ti ringrazio per essere venuto...sai... non posso spiegarti ora. Ti prego.... accomodati!”
Si sedette muto, continuando a scrutarmi con piglio interrogativo. Giocai nuovamente d’anticipo e dissi:
“Devo chiederti una grossa cortesia e devi anche sapere che non potrò darti alcuna spiegazione, almeno per ora.” Mi alzai, mi avvicinai con calma alla finestra, scostai le tende e notai che Milano stava per addormentarsi. Finora non me n’ero accorto, ma stava piovendo e l’acqua, passando fra la mia finestra ed il lampione sottostante, sembrava composta da tanti aghi d’acciaio che, gettati giù da qualche nuvola, s’illuminavano a contatto con la luce liquefacendosi appena toccato il suolo e formando pozzanghere dai riflessi irreali.
Distolsi lo sguardo e mi resi conto che, di lato, la rifrazione della luce era interrotta da due lunghe ombre di chiara natura umana. Erano probabilmente il mio destino.
Mi voltai di scatto, inquieto. Enrico, quasi spaventato, disse: “Cosa sta succedendo?”
Lo guardai e non risposi. Abbassai lo sguardo sul pavimento cercando le parole per una risposta logica ma, non trovandole, scelsi di andare direttamente al sodo.
“Senti...ho bisogno di un grosso favore. Devi portare questo regalo a mio figlio, é importante, l’ultimo regalo di suo padre!” Mi fissò perplesso ed io continuai.
“Ora uscirò di casa e andrò verso i Navigli, ti lascerò le chiavi e, dopo cinque minuti, uscirai con questo pacco dirigendoti dalla parte opposta, verso il centro. Mi raccomando!”
Mi voltai, presi l’involto, lo sistemai sul divano di fianco a lui e m’avvicinai al camino, estrassi poi l’accendino e con calma bruciai i miei appunti foglio per foglio. Era una sensazione strana, come se una parte di me stesso stesse bruciando con loro.
Mentre con le braccia distese appoggiate al trave del camino e la testa china guardavo il risultato di questa penosa operazione, Enrico si alzò, mi posò una mano sulla spalla e disse:
“Non ti preoccupare, non ti deluderò...Vedrai che tutto si sistemerà, prima o poi!”
Forse fu solo un’impressione, ma riscontrai una certa emozione in questo banale tentativo di farmi dire qualcosa di più. Girandomi lo abbracciai con forza e con un groppo alla gola dissi:
“Grazie! Non lo dimenticherò mai!”
Presi l’impermeabile, la valigetta con il finto manoscritto, spensi le luci lasciandolo lì attonito al buio e pronunciai la frase più stupida che potessi dire in quel frangente.
“Ci vediamo!” ed uscii.
Discesi con apparente tranquillità le scale e, uscendo dall’edificio, vidi le due figure, dall’altro lato della strada, immobili e tese come il bracco che punta la sua preda.
Con gesti misurati, alzai il bavero del mio impermeabile, voltai a destra e iniziai a camminare lentamente.
Le luci della città si allungavano e scioglievano nei rivoli d’acqua, salvo per rimanere in superficie, immobili, quando l’acqua scompariva precipitando nelle grate lungo la strada. Camminando, sentii altre scarpe calpestare l’acqua in sincronia con le mie.
Avrei voluto guardare in faccia i miei inseguitori, per poter chiedere loro il perché di tutto questo e se “loro” non avessero già fatto abbastanza male. Abbassai la testa pensando che avrei dovuto assolutamente guadagnare tempo.
Senza rendermene conto giunsi ai Navigli. La pioggia incessante increspava la loro superficie, di solito piatta, disegnando una miriade di cerchi che, scontrandosi, finivano per distruggersi inesorabilmente fra di loro.
Improvvisamente comparve un taxi. Fu una decisione improvvisa, lo chiamai. Dovevo assolutamente allontanare gli inseguitori da casa mia.
Emettendo un intenso stridio di pneumatici sfregati sul pavé bagnato, il taxi frenò. Aprii di scatto la portiera gettando sul sedile posteriore la mia valigetta e, entrando nella vettura, mi sentii sollevato come la volpe ansimante che guarda vittoriosa la muta di cani ululanti alle sue spalle credendosi ormai al sicuro.
Sollevai gli occhi e solo allora, con sgomento, vidi un terzo uomo a bordo di una Mercedes nera che, facendo ampi gesti e calpestando nervosamente l’acceleratore, sollecitava gli altri due a montare a bordo.
Sdraiato sul sedile posteriore urlai:
“Alla stazione, presto!”
L’omino insignificante che stava alla guida scrutava lo specchietto e, con la chiara intenzione di sondare la mia voglia di conversare, ruppe il silenzio con un classico:
“Tempo da cani, vero?”.
Non risposi. Con la mano ripulii il vetro appannato e, appoggiandovi il capo, pensai alla mia singolare esistenza, a tutte le varie coincidenze che mi avevano portato in quel taxi, al fatto che per un oscuro progetto del destino, proprio io, Filippo l’egoista, il senza Dio, il libertino, ero divenuto l’inconsapevole realizzatore del più grande sogno dell’umanità. In quel momento avevo finalmente raggiunto la piena coscienza del mio ruolo in quell’imperscrutabile disegno che avrebbe, all’inizio del nuovo millennio, creato una nuova Era per tutta la popolazione della Terra, l’era della consapevolezza e della felicità, l’Età dell’Oro.
Questi pensieri riuscirono a distrarmi per un attimo dalla realtà, ma non per molto. Altre ansie si riappropriarono presto della mia mente e, bruscamente, mi ritrovai nuovamente con la testa appoggiata al finestrino di un anonimo taxi inseguito da un’incontrastabile sorte.
Lievi fiocchi bianchi iniziarono a scendere volteggiando lentamente, come se l’idea di toccare terra li ripugnasse e tentassero disperatamente di tornare là da dove erano venuti.
Alcune persone vagavano sole corricchiando come se dovessero sfuggire a qualcosa, mentre un barbone si trascinava lento come se non avesse più nulla da cui scappare.
L’omino del taxi, improvvisamente, ruppe il silenzio.
“Stazione Centrale, siamo arrivati signore!”
Forse per istinto, presi una manciata di banconote e gliele porsi con disinteresse, poi volsi lo sguardo verso la Mercedes e vidi i miei inseguitori che si apprestavano a scendere.
Con ritrovato vigore, attraversai il piazzale, entrai nel maestoso androne, salii la scalinata ed arrivai all’atrio che conduceva ai binari. Respiravo con affanno, il cuore impazzito dava l’impressione di voler fuggire via dal mio torace, lamia mente era sopraffatta da milioni di pensieri ormai liberi di rimbalzare ovunque e, come un lampo, un forte presentimento s’impossessò del mio essere: i mastini stavano per attaccare la loro preda ed era inutile cercare di sfuggire ad un destino già scritto.
Decisi allora di prendere tempo. M’avvicinai al deposito bagagli, consegnai la mia 24 ore, ritirai lo scontrino e mi diressi verso l’uscita.
I due uomini, immobili, mi videro sfilare davanti a loro. Il primo, apparentemente il più giovane, non riuscì a reggere il mio sguardo carico di quesiti e, chinando gli occhi, portò istintivamente la mano destra alla tasca dell’impermeabile. L’altro, con prontezza, gli bloccò il polso afferrandolo con la mano sinistra e così intravidi chiaramente il calcio della pistola che stava estraendo ricadere pesantemente nella tasca.
Pensando che, per quanti scrupoli potessero avere, non avrebbero sicuramente potuto uccidermi di fronte a tanti testimoni, alzai prontamente gli occhi e una vampata di calore e odio esplose in me nell’istante stesso in cui guardai il secondo uomo.
Era alto e con i capelli brizzolati. Folte sopracciglia erano attaccate al centro della fronte, gli occhi erano scuri, piccole fessure allungate che parevano lottare in continuazione con le ributtanti borse violacee che li circondavano, una profonda cicatrice partiva dall’angolo estremo dell’occhio sinistro per finire sul labbro superiore carnoso e rossastro eternamente unto e il tutto era sovrastato da un enorme naso aquilino.
Molte volte l’avevo incontrato nell’arco della mia vita. Dal momento in cui scoprii il “loro” segreto era il mio persecutore.
Mi guardava trionfante digrignando i denti grigi come un lupo grondante del sangue della sua preda. Sapeva benissimo di avermi in pugno e assaporava il momento in cui avrebbe azzannato il mio cuore.
Dopo un momento di rabbia, provai quasi pena per lui e per i suoi loschi mandanti e, con rassegnata calma, ripresi il mio cammino. Frugando nelle tasche trovai un’ultima sigaretta, l’accesi e, aspirando profondamente, scesi le scale. Ritornando all’aperto, a passo lento attraversai i giardini di fronte la stazione.
Dopo una leggera nevicata aveva ricominciato a piovere, l’aria era pungente e, passeggiando gustando la sigaretta, mi diressi verso i portici.
Dopo un centinaio di metri attraversai il viale in direzione del parco, controllai i due uomini e notai che aumentavano velocemente il passo. Li sentivo sempre più vicini.
In mezzo al piazzale al centro del parco, decisi che era giunto il momento di porre fine a quella stupida caccia dove la preda non poteva e non voleva salvarsi.
Mi voltai di scatto e andai incontro ai miei segugi. Fu un attimo, pochi passi sull’asfalto bagnato, uno sparo, un altro...Un dolore lancinante mi fece piegare su me stesso.
In un baleno vidi, in sequenza, le mie scarpe, l’asfalto, i due uomini, gli alberi e, cadendo pesantemente sulla schiena, il cielo. Sentivo la pioggia scivolare sopra il mio viso. Alzai con fatica la mano e, tastando la camicia ormai inzuppata, trovai il punto da dove fuoriusciva il sangue e premetti con le mani come se volessi trattenere dentro di me la vita.
I due uomini s’avvicinarono, borbottarono qualcosa che non riuscii a capire e li vidi, uno da un lato e l’altro di fronte, in una strana prospettiva dal basso verso l’alto, chinarsi e frugare nervosamente nel mio impermeabile sicuramente alla ricerca dello scontrino del deposito bagagli e poi alzarsi, sogghignare ed allontanarsi sicuri della vittoria che io, il perdente, avevo in realtà ottenuto. Il segreto del manoscritto era salvo, la mia vita aveva avuto un significato. Il futuro dell’uomo era stato nelle mie mani ed era ancora vivo nel mio seme.
Ora, mentre la pioggia scorrendo sulla mia pelle pareva ribollire nella mia bocca impedendomi di respirare e il sangue ormai coagulava fra le dita, stranamente ricordai con estrema lucidità il tempo in cui tutto aveva avuto inizio e per la prima volta avevo sentito parlare del manoscritto che avrebbe poi cambiato la mia vita e non soltanto la mia.
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